Precariato & Università | Una lettera mai pubblicata

Gentile redazione,

dopo aver letto la lettera di Daiana e dopo che per l’ennesima volta i nostri ricercatori si sono distinti in quanto a bravura, ho ritenuto che questo fosse il momento giusto per provare a scrivere qualcosa su cosa significa per me essere precari all’università, perché se ne sente tanto parlare ma dubito che siano chiari a tutti gli ostacoli che una persona che si appresta ad intraprendere una carriera accademica in Italia dovrà affrontare. 

Quando ero piccola i miei genitori mi consigliavano di studiare, così da poter avere un futuro migliore e io mi sono fidata della loro esperienza e così - dopo i sacrifici per andare all'università e l’allontanamento dal mio paese per migliorare il mio curriculum - quando ho saputo di aver vinto diverse borse di dottorato sia in Italia che all'estero ho festeggiato e deciso di rimanere, perché finalmente - dopo tutti quegli anni da squattrinata e le lunghe serate sui libri - mi sono detta che era arrivato il momento di pensare anche alla mia di felicità. Ho scelto di dedicare tre anni della mia vita ad un dottorato perché sinceramente appassionata dalla ricerca e orgogliosa del fatto che l'avrei portata avanti in un campo veramente importante, seppur cosciente della strada impervia che mi sarei ritrovata a percorrere, ma non per questo la mia determinazione s'è lasciata vincere. Ho terminato il dottorato pubblicando la mia tesi in un’ottima rivista, grazie anche ad un anno negli USA, dicendomi dipendente di un’università di un paese sottosviluppato, l’Italia, perchè non potevo permettermi una pubblicazione così costosa (sì, perchè si paga per pubblicare articoli scientifici). Questo mi ha permesso di pubblicare la mia tesi senza che sborsassi un euro. Era il primo campanello d'allarme.

Ho subito iniziato a lavorare come assegnista di ricerca in un dipartimento per il quale ho contribuito alla pubblicazione di diversi articoli, per il quale ho fatto ricerca per la durata di tre anni, durante i quali sceglievo scrupolosamente i convegni in città con amici che mi potessero ospitare così da non gravare più del minimo indispensabile sui fondi. Ero entusiasta del mio lavoro e delle scelte fatte - nonostante guadagnassi e fossi tutelata meno di un operaio pur lavorando sempre, senza limite di ore e senza osservare il lusso del fine settimana - fino al giorno in cui mi sono ammalata gravemente e da allora ho iniziato a capire cosa significa la precarietà.

Temo non si sappia che le persone che fanno ricerca passano molte selezioni e lavorano senza staccare mai per via della tanta, troppa, concorrenza dettata dalla scarsità di fondi pubblici e dal fatto che vengono valutati in base al numero di pubblicazioni, il famoso publish or perish, criterio che tanto sta minando la qualità della ricerca. Essere precari nel mondo della ricerca in Italia non vuol dire soltanto non essere sicuri di dove e se si lavorerà fra qualche mese, trovarsi sempre in cerca di fondi ed essere talvolta talmente appassionati dal lavoro da continuare a portarlo avanti anche quando non si è più pagati, nella speranza di esserlo in futuro, ma significa anche che se ti ammali seriamente - come ho avuto la sfortuna di sperimentare io - da un giorno all'altro il tuo stipendio si congela: non sei più pagato, l'università ti scarica. Per non farla troppo tragica, basta anche un incidente per rendervi fuori gioco e farvi tornare a chiedere un aiuto ai genitori. Proprio voi, gli studenti più brillanti vi siete trasformati in men che non si dica nei lavoratori più precari. E non esiste nemmeno la categoria protetta a darvi una mano nella vostra carriera accademica, probabilmente perché si deve arrivare a certe posizioni solamente per merito. Sta di fatto che è molto più probabile essere assunti dall'università dopo aver fatto ragioneria che l'università. Un controsenso, vero? Ma supponiamo che voi siate in salute e dopo il dottorato vogliate continuare e riusciate a trovare un assegno di ricerca: da quel momento per voi scatta un timer della durata di sei anni per fare il salto a ricercatore, ma nessuno ti spiega come si fa a diventarlo perché tanto dipenderà in minima parte da te, dato che i concorsi per "posti da strutturati" come il ricercatore, sono spesso palesemente truccati o scritti ad hoc per far passare candidati già prescelti per motivi politici. A volte ho visto assumere figli di professori addirittura senza un dottorato, a cui i genitori hanno regalato la paternità di articoli mai scritti. E pensare che il sistema dei concorsi, tutto italiano, è stato messo in atto proprio per evitare favoritismi. All'estero, infatti, o si convocano dei professionisti stranieri per valutare i candidati, oppure un professore può tranquillamente scegliere di voler continuare a convogliare i propri fondi verso uno studente col quale ha già collaborato. Questo avviene senza che il professore sia costretto ad organizzare un finto concorso, senza dover scomodare e illudere altri precari che accorreranno (a spese proprie, naturalmente, dato che spesso non è contemplato il semplice colloquio via etere), talvolta sprecando ore per candidarsi e a volte anche soldi per stampare e spedire tutti i moduli e le pubblicazioni richieste in formato cartaceo e/o con cd o pennette all’università, perché succede ancora questo. Ai concorsi capita anche di essere derisi - invece che ammirati - dai professori non appena questi vedono la (relativamente) giovane età, dicendoti di far passare avanti i quarantenni che sono in coda, quando ai loro tempi non era nemmeno richiesto il dottorato. E così è molto facile che alla scadenza dei sei anni, tu venga declassato a borsista (e quindi con uno stipendio ancora inferiore e ancor minori tutele, ad esempio niente più contributi e previdenza), dato che a quel punto - a quasi 40 anni - è improbabile che un'azienda media italiana (data la scarsa collaborazione tra aziende e università) si interessi a te e che tu sia disposto ad abbandonare tutto per andare all'estero. L’alternativa è andarsene oppure cambiare lavoro, ma che spreco immane è questo sistema per le casse delle università italiane che ci hanno formati? Dopo tutti quegli anni di università è estremamente probabile che tu abbia anche tenuto dei corsi e che a quel punto, dato che da borsista non si possono tenere per regolamento, per non lasciare a piedi studenti e studentesse tu decida di continuare informalmente (e quindi gratuitamente) a nome di un altro titolare. E comunque va detto anche che fare lezione per il tuo responsabile è una pratica molto diffusa in Italia, che porta via tempo e non frutta in alcun modo al precario.

E anche quando sei arrivato ad essere ricercatore, in realtà c'è ancora molto da fare. Perché un ricercatore deve trovare anche il tempo per insegnare, è sottoposto a molta burocrazia e deve riuscire anche a pubblicare molto e a fare molta buona ricerca se vuole diventare professore. Infatti, il campo minato della ricerca prevede che un ricercatore junior (RTDA) debba conseguire l'abilitazione scientifica: una specie di patente della ricerca in uno specifico settore concorsuale (ad es. chimica analitica, chimica fisica, chimica generale e inorganica, chimica industriale, ecc...), con una durata che fino a poco tempo fa era di 6 anni ed oggi è stata estesa a 9, ottenibile solamente in alcuni frangenti specifici. Ma sebbene abbia un senso rivalutare la patente di guida, in questo caso per quale logica un ricercatore che era stato reputato in grado di fare ricerca, allo scadere di tot anni non lo sarebbe più? Comunque sia, l’abilitazione permetterebbe di essere promosso a professore associato o ricercatore senior (ammesso che ci siano concorsi e qualcuno spinga perché ciò avvenga). Per ottenerla sono necessari almeno due parametri - variabili in base al settore concorsuale - fra questi: molte pubblicazioni, citazioni a centinaia e un alto indice che quantifica l'impatto scientifico di un ricercatore. E non è nemmeno detto che avendo due di questi parametri si sia abilitati, ma è a discrezione dei valutatori. 

In tutto ciò, un altro problema non da poco nella qualità di vita di un accademico italiano sta nel fatto che, sempre per evitare che i concorsi vengano truccati, non si può lavorare nella stessa università in cui lavora un parente. Non sapete quante coppie con figli non solo non si possono sposare, ma sono oltretutto costrette a vivere in città diverse per via di questa clausola. 

E per concludere, vorrei sottolineare che fra il dottorato e l'assegno di ricerca, o fra un assegno e l'altro (dato che spesso durano un anno alla volta) fino a poco fa non era nemmeno prevista la disoccupazione. Pare evidente che chi fa ricerca in Italia non è considerato un lavoratore: nessuna malattia, nessun TFR o tredicesima, pochissimi contributi e di buoni pasto nemmeno a parlarne. Ho capito la vocazione, ma chi fa ricerca campa di passione? C'è una parte di figli di papà, di persone che possono permetterselo, ma non sono la maggioranza. E chi ve lo fa fare, vi chiederete. Spesso sono situazioni personali a tenerci legati qua, altre volte la voglia di essere riconosciuti per ciò che valiamo nel nostro paese. Ma la meritocrazia dov'è in tutto questo? La ricerca non dovrebbe essere, a mio parere, un lavoro per pochi privilegiati ma per pochi virtuosi. Può la passione giustificare tutto? E perché i politici non parlano di questo sistema autodistruttivo che ha un impatto fortissimo sulla società attuale? Questo sistema a mio parare umilia chi studia, sminuendo il valore dell’educazione e dell’impegno. E tutto questo i ricercatori di oggi sono disposti a farlo perché anche loro - come mi auguro la maggior parte di voi - non riescono ad immaginarsi a praticare nessun altro lavoro che non sia quello che amano. Non lo fanno per ambizione, soldi, potere ma per la soddisfazione e per la botta di adrenalina che insegnare e scoprire qualcosa di nuovo dà loro. 

Sono questi i motivi per cui oggi c’è questa emorragia di teste coronate d’alloro e nessuno se ne cura, se non tendendo loro trappole per farli tornare - annebbiati dalla nostalgia della loro terra - nelle stesse sabbie mobili dalle quali erano fuggite. Quindi dite ai vostri figli di non studiare troppo, se non li volete vedere costretti a salpare verso paesi più meritocratici e più incentrati sul futuro. Oppure iniziate a indignarvi e a ridare il valore che hanno la comprensione e la curiosità, invece di farvi ipnotizzare da politici che cambiano tutto per non cambiare niente. Ridiamo il valore che meritano l'insegnamento e la ricerca, che ci hanno portati a un tale livello di benessere da essercene dimenticati: solo così potremo avanzare e tentare di tornare ad essere l’Italia all’avanguardia che siamo stati.


Una ex assegnista di ricerca che s’è tirata fuori dal sistema

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