Lettera di (non) amore

 Firenze, 5 aprile 2021

Jérȏme,

stasera ho aperto la busta che mi hai lasciato in stazione a Bologna, l'ultima volta che ci siamo visti. Aveva ancora il tuo profumo addosso. Aprire quel vaso di Pandora è stato un tuffo al cuore... Le tue parole brutali e bellissime al contempo, sono così autentiche e così disproportionné che sono felice di averle conservate per tutti questi 14 anni.

Tra l'altro era proprio in questo periodo che ci siamo conosciuti, poco prima di Pasqua, vero? Ricordo quella sera. Tu dovevi passare a prendermi per andare a una festa ma eri in ritardo. E ho in mente la scena in cui apro la porta per vedere che fine avesse fatto quello sconosciuto e tu eri di fronte a me col pugno alzato, nell'istante prima di bussare. Ridemmo e poi tu mi dissi: «Enchantè».

Non eri più così incantato di avermi conosciuta in quelle lettere. L'unico difetto che hanno è che sono tremendamente vere. Erano indirizzate a una ragazza che non si sentiva all'altezza di stare a fianco a una persona come te. Perciò, sentendosi inadeguata ha preferito – invece di fare il salto che l'avrebbe catapultata in un mondo scintillante – rintanarsi. Jéjé, veniamo da due mondi distantissimi che sono entrati in collisione! La tua storia personale, che è facilmente rapportabile ai tuoi problemi attuali, ai miei occhi sembrava una favola. Vedevo in te un artista intelligente, d'una bellezza forte ma gentile, con una famiglia da film e un futuro spianato nella classe dirigente. Tu rappresenti l'uomo nuovo, libero, che viene da un'intersezione di mondi ai più ignoti. Mentre io vengo da una famiglia di contadini che non ha mai creduto in me... e i contadini hanno generalmente paura, Jéjé. L'inadeguatezza, il terrore e le incomprensioni. Mettici un pizzico del tuo lato oscuro che ogni tanto traspariva e il gioco è fatto. Eri come mercurio, scivolavi in ogni fessura della mia mente...

Ci sono tuttora giorni in cui ti penso così forte... che inizio a pensare in francese. Risento le tue j che scivolano via gentilmente e le tue d che sembrano un tamburo battente. Ricordo quando scalando mi paralizzai dalla paura e tu salisti a porgermi la mano e saltammo insieme. La notte che abbiamo scavalcato il filo spinato per andare a fumare sull'ala di quell'aeroplano. E quella a cantare e a piegare origami fino al mattino, con un gatto che stava finendo la nostra cena senza che ce ne accorgessimo e il vicino sbronzo che usava il mio gabinetto indisturbato. Perché quando eravamo insieme poteva cadere anche il mondo ma puoi stare certo che noi non ce ne saremmo accorti! È stata quella notte la prima volta che ho pensato che avrei voluto fare l'amore con te. La musica che ascoltavamo, oggi sembra quella di chi deve espiare dei peccati, prima ancora di averli commessi. Poi rivedo i tuoi occhi annegati nell'alcool che si lasciano sfuggire un je t'aime. L'imbarazzo, le scuse, gli amici, il campus con le pecore, la stanza 413, quella con l'abbaino, i film, le risate, l'inevitabile. Ricordo il tuo je peux? prima di baciarmi. Conservi anche tu qualcuno di questi souvenirs o ne sono l'ultima custode?

A volte ti sogno con lo sguardo vuoto che mi dici: «c'est trop tard». Credo sia a causa tua se sono così ossessionata dalle decisioni. Oggi, con l'esprit de l'escalier saprei qual'era la scelta giusta. Peccato che il timing non sia il migliore. Non lo è mai quando si tratta di me, vero? Tu rappresenti – nel mare dei rimorsi – il più grande che porto con me. Mi chiedo se sono questo genere di rimorsi la causa delle malattie che invecchiano così velocemente la gente. Chi saremmo diventati se avessi avuto più coraggio: saremmo più felici o saremmo entrambi in rehab? Ogni volta che sbuca il tuo grazioso viso nel tondino sul mio cellulare vedo la cartina tornasole della mia vita ammonirmi. Mi prende una voglia irrefrenabile di salire su un aereo, fare il semi-giro del pianeta e di venire a guardarti negli occhi per capire cos'è questa cosa che tu chiami depressione e darti una mano a saltare giù. E invece resto incastonata nella vita che ho costruito nel frattempo, consapevole che non è di me che hai bisogno, anzi. So di essere fuori tempo massimo e mi scuso per aver provocato uno tsunami in te. Perché anche se tu sostieni che non è stata colpa mia, la certezza che la mia indifferenza non ti fosse necessaria c'è. Ma a quei tempi mica lo capivo.

Questo flusso di coscienza logorroico era solo per darti una notizia e farti una proposta. Dopo aver finito di leggere le tue lettere mai spedite, mi sono sentita in colpa e ho cercato conforto in Gaia, la ragazza di Yives, che io gli feci conoscere. E lei mi ha choqué dicendomi che a settembre avranno un bambino e l'anno prossimo si trasferiranno a Barcellona. Riesci a crederci? Mi farebbe piacere conoscere l'unico prodotto buono che il mio arrivo in Francia ha generato. Pandemia permettendo, che ne diresti di prenderci un caffè a Parigi questo autunno, solo io e te?

Rileggendoti ho provato nostalgia per quei tempi, quando tutto poteva essere ancora fatto e potevamo ancora scegliere chi essere. Ma il bello della vita non è proprio il fatto di poterla stravolgere in ogni momento, nel bene e nel male? Dalla mia malattia ho imparato che le cose vanno sempre dette, prima che sia troppo tardi. Perciò colgo l'occasione per dirti che ti voglio bene, mon coquelicot.

Prenditi cura di te. A presto, spero.

Laurà

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