La Tribù

«Ci a vid è brutt' nu amma esser chiu' brutt d'jedd» sentenziò il giovane Keler intento a incidere la pelle liscia dell'interlocutrice.

«Cè?» gli chiese Cinzella.

«Ste' pnzav a un d'quidd carrett' ca ve gir a' vennenn sasizz...» tentò lui, che venne subito investito dall'onda d'urto delle parole di lei, che si appiccicavano le une alle altre in una specie di liason inarrestabile. Il rumore della macchinetta s'arrestò e fu soppiantato da una discussione che si fece tumultuosa, a tratti spumeggiante per poi placarsi su un: «Ma tu t' penzav ca m'avera spusà apprim d'accattà stu carrett o dop?»

In quell'aula calò subito un silenzio interstellare, mentre in quella a fianco – che un tempo era stata la 2a C dell'istituto alberghiero – se ne stava Palmiro impigiamato e intento a denudare a tentoni una Fiesta, lo sguardo calamitato dallo schermo sul quale passavano le immagini del funerale della regina Elisabetta. Le signore dell'aula al piano di sopra stavano invece separando le corna dei fagiolini dai loro corpi longilinei. Sotto, nel cortile fatto di ghiaina, alcuni bambini difendevano animatamente la tesi che voleva le lumache costituite per lo più dal catarro. A pochi passi da loro il conte Leonida Merlo stava aprendo il cancello, quando tentò di fischiare per chiamare il gatto Fidel ma ̶ data l'assenza di denti o surrogati ̶ il suono emesso assomigliò più al ronzio di una vecchia radio mezza scassata.

«Stella!» urlò Otto voltandosi di scatto verso l'amico pietrificato in una posizione degna di un maestro di taiji. Poi Otto si voltò e riprese a fissare il muretto recitando lentamente la breve sequenza numerica ad alta voce, per poi riavvitarsi di nuovo velocemente su sé stesso, ma questa volta di fronte a lui non trovò Andrea. Sbigottite, le biglie nei bulbi oculari di Otto presero a rotolare da una parte all'altra alla ricerca di un indizio, finché non incapparono in uno stormo d'uccelli che in quell'istante si stava librando in volo con un'elegante coreografia: gli si cristallizzò la colonna vertebrale in un brivido. Starnutì.

Quando fu certo che non si trattava di uno scherzo, Otto corse a raccontare l'accaduto agli altri. Prima che si accendessero le luci sul castello Aragonese, si accesero gli interruttori nelle gole di tutta la tribù dei piccoli dell'alberghiero che, dividendosi in squadre, presero a cercare l'amico. Il piccolo Spartaco, costretto all'isolamento dal morbillo, si stava esercitando come coiffeur su Fidel, al quale aveva promesso grandi successi nel rione. Ma questo – sentendo tanto fracasso – scivolò fuori dalla gattaiola per raggiungere i bipedi e insieme si avventurarono oltre al ponte Girevole. Tutti avevano sentito dire che le persone là fuori potevano svanire come bolle di sapone, solo non potevano credere che fosse capitato proprio a uno di loro.

«Avrà trovato la macchina del tempo e deve averla azionata senza volerlo» ipotizzò Nanà mentre tornavano dal rione Tamburi.

«Oppure l'ha fatto apposta, per vedere se ci preoccupiamo per lui, mia mamma a volte lo fa» fece Efrem.

«Certo se così fosse ci siamo già preoccupati abbastanza, adesso potrebbe uscire allo scoperto» disse risoluta Oriona.

«Se avesse trovato una macchina del tempo me l'avrebbe detto. Avevamo deciso che saremmo andati insieme a salvare la mamma di Fidel!» tuonò la voce traballante di Otto.

«E se avesse cambiato idea?» tentò Gaspare.

«In questo caso avrà ancora più storie da raccontarci di quante ne aveva tornato dall'India!» li rassicurò Nanà. In quel momento Otto si ricordò della teoria di Andrea sulle stelle, secondo la quale queste non sarebbero altro che buchi praticati sul coperchio della scatola dell'universo per mano di giganti. Proprio come avevano fatto mille volte loro con le lucertole. E se i giganti l'avessero sentito e ammesso al loro mondo? Doveva essere andata così, presto tornerà, si disse.

Il conte cercò a modo suo di rassicurare la madre quando questa gli chiese se lui, trovandosi nei dintorni al momento del misfatto, non avesse per caso visto qualcosa di sospetto. Ebbene, lui non ci aveva fatto caso, preso com'era nel ricordare le direttive impartitegli dal dottore per rimediare al polistirolo che gli era stato trovato nel sangue. «No nda' denz signò, so' uagnùn so. Pinz ca quann'ev piccin ij l'fascev a trem a terr' e po' m' n'ascundiv, e po' tan quann m'acchiavn invec cu m' devn mazzat, m fascivn a fest sul piccè stav bbuen. Statt tranguill signo', ca cre matin aven», la terrorizzò il conte. C'è c'ha cumbnat u piccinn mij?, iniziò a domandarsi lei, che non la smetteva di preparare succo di naso di cane, tè di alghe nū e madeleine alle unghie e ribes: i piatti preferiti dal figliolo, per festeggiarne l'eventuale ritorno.

Eppure nemmeno i giorni successivi Andrea si fece vedere. E così i mesi caddero, involontari come cadono gocce d'acqua da una mano aperta e presto alla madre di Andrea dovettero revocare il compito di prenotare la pioggia, dato che lei se ne dimenticava puntualmente, presa com'era in cucina e a rifocillare le zanzare che il figlio teneva come animali da compagnia.

In quei mesi Otto si era costruito un mosaico che, come una goccia d'ambra conserva il bagaglio genetico di un fossile, cercava di simulare con ritagli di giornale fenotipi simili a quelli del volto amico. Così fissava le sue pupille in piatti occhi cerulei che bastavano a ricordargli quelli reali di Andrea, fulgidi come boccioli di peonia, spostava lo sguardo su lunghi capelli scuri e posticci, che somigliavano a quelli che aveva spesso visto fluttuare al maestrale sul suo incarnato lunare, marcato soltanto da un piccolo neo vicino al solco sotto nasale. Gli bastava fissare quel capolavoro di carta patinata qualche secondo e chiudere gli occhi perché riprendessero vita dentro la sua mente istanti interpolati di felicità dal vigore reale, come il profumo di cibo liofilizzato una volta reidratato. Questa magia funzionava soprattutto all'inizio, quando riusciva addirittura a sentire la sua voce, poi sempre più di rado.

«Ma esistev averamend?», si stava chiedendo Otto tra sé e sé mentre guardava Olivia girellare nella sua boccia, quando una voce familiare lo fece trasalire.

«Ce je l'amor p te Otto?» gli chiese la madre chiudendosi il cappottino iridescente d'ali di farfalla e sedendosi vicino a lui alla finestra della 1a A, che si affacciava sul mar Piccolo. Seguì una pausa e poi, schiarendosi la voce, le rispose: «E quann sce, sce, sce... po chiant u zipp». Quelle parole imboccarono la direttissima per posarsi come zavorre sul cuore di lei, che incurvò lentamente la schiena come a volerle proteggere. Poi prese tra le mani uno dei tentacoli di capelli che le salirono al petto e dalle narici emise un buffo d'aria calda e umida, come fosse un cavallo stanco.

Nel mese di Diorama la polizia iniziò a sospettare Giuanne, il cartapestaio della scala B, in quanto era risultato presente ad ognuna delle sempre più frequenti sparizioni nell'area. Ma – non avendo nessuna prova – decisero di interrogarlo nel tentativo di fargli sputare almeno uno straccio di movente. Lui, dimostrandosi collaborativo quanto stupito, li seguì fino alla centrale. Una volta arrivato e sceso dall'auto, si incamminò zoppicando e scortato da due agenti verso l'ingresso ma prima di entrare si girò per far scattare la chiusura centralizzata della sua Apecar. In quell'esatto istante l'agente Attilio, che stava alla sua destra, sparì. L'imputato non poteva credere ai suoi occhi, così si voltò verso l'agente Jens, che lo guardò basito ma non fece in tempo a farsi prendere dal panico che Giuanne pigiò nuovamente sul pulsante. Subito svanì anche l'altro agente. In pochi secondi i problemi del cartapestaio si erano dissolti nel nulla. Così questo si guardò intorno circospetto e s'affrettò a rientrare a piedi.

Al matrimonio di Keler e Cinzella, che si tenne nel giardino dell’alberghiero, era presente tutta la tribù, tranne Andrea, di cui non si era saputo più nulla. Quel giorno però, mentre Otto si trovava in coda per la sua sasizz, questo si ritrovò a fianco ̶ come ci si fosse materializzato ̶ un bel coniglio con vibrisse scompigliate come fossero cavi elettrici di Mumbai, dal petto candido e la schiena nera come ossidiana. Sotto al naso, che sembrava di ceramica, stava un cerchiolino nero. Occhi scuri in occhi cerulei. Starnutì.

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