Di geki, polpi e pietre di fuoco: un viaggio nella Puglia che pensavo di conoscere

Il fatto è che ai miei tempi studiare a Bologna significava vivere in una città colonizzata da studenti fuori sede pugliesi. Quelli erano i tempi dei Sud Sound System, degli Aprés la Classe e in cui Caparezza ci faceva ballare come fossimo tarantolati ad un falò in spiaggia, mentre invece eravamo stipati in un capannone occupato nella nebbiosa patria della mortadella e del lambrusco. Ai miei tempi studiare a Bologna significava vivere con coinquistanze di Noicattaro, scambiare appunti con compagni di corso di Giovinazzo, trovarsi il divano occupato da gente di Corato, avere amici di Foggia, ex di Bitonto, interfacciarsi con cassieri di Cisterino e baristi di Acquaviva, lavorare per gente di Monopoli, divertirsi in serate con djset e dancehall salentine, ma indoor. L'impressione che si aveva era che la Puglia tutta si fosse travasata in una città, soffocandola. Ecco quindi perché ogni anno, allo scoccare dell'estate ― mentre la massa colonizzatrice si spostava compatta e pulsante verso il campeggio Frassanito ― io sognavo Berlino.

Per riprendermi da quell'indigestione e convincermi a buttarmi sul diretto verso Bari mi ci vollero quindici anni, una pandemia e una forte curiosità antropologica per il mitico prete di San Foca. Prima di mettermi in viaggio devo però ammettere che mi prese una strana angoscia. Temevo infatti di sovrascrivere città ricamatissime, sognate in tutti quegli anni, con banali ricordi reali. Non avrei voluto dire addio alle bellissime città fatte di bifore e pavoni che avevo favoleggiato, o alle città dove i bambini avevano la fortuna di conoscere aneddoti sull'infanzia di Santa Klaus (che peraltro custodivano avidamente) o dove i genitori erano indaffaratissimi a confezionare pacchi per il Nord come fosse sempre Natale. Forse perciò escogitai un piano infallibile per non accorgermi di nulla di tutto quello che avrei visto: pianificai tappe degne del buffo film Se è martedì deve essere il Belgio. Infatti, stando al mio personalissimo tour de force mi sarei fermata a: Bari, Giovinazzo, Trani, una visita ad un amico di Polignano, una volata a Monopoli, una a Cisternino e già che c'ero anche una scappata ad Alberobello, una ad Ostuni era d'obbligo, poi una notte a Otranto e giù fino a Santa Maria di Leuca, finalmente San Foca per l'ispezione di cui sopra, Lecce non fosse solamente per il suo caffè, una breve tappa da amici ad Avetrana e, per concludere in bellezza, Taranto. Et voilà, in dieci giorni e senza macchina. Ero motivatissima.

Eccomi quindi approdare a Bari, luogo che in qualche modo sentivo ― se non proprio come casa ― quantomeno come terra-amica, accogliente quanto la stanza di un coinquilino sempre disponibile. Non appena posai lo zaino sulla chianca della stazione, fra il via vai di persone vestite come se ci trovassimo in uno stabilimento balneare, il profumo di focaccia misto a quello di salsedine mi scovò e monopolizzò i miei pensieri. Mi ritrovai subito stupita al pensiero di non avere nessun ricordo da associare a quella combinazione fenomenale, quasi conturbante, di essenze. Bisognava subito rimediare.

Il capoluogo mi accolse con la sua minacciosa via Sparano da Bari, io gli feci subito capire di che pasta sono fatta ordinando una schiacciata pugliese da un forno che fu tanto cortese da non deridermi. Al primo morso mi fu immediatamente chiaro com'era potuto accadere che un forno barese riuscisse a scacciare la perfida concorrenza di McDonald's: quella focaccia era semplicemente commovente. Spulciando la guida con le mani ben unte, mentre cercavo qualche indizio che potesse attrarre la mia attenzione, notai come la forma di Bari vecchia era piuttosto simile a quella del centro storico della mia Mantova. Bastava non soffermarsi troppo sul fatto che quest'ultima era stata originariamente un'isola sul fiume Mincio, mentre Bari un porto di pescatori che dava sul mondo bizantino. Ranocchie e zanzare da una parte, pirati e sirene dall'altra. L'acqua dolce e l'acqua salata. Due punti di vista tanto lontani quanto affascinanti.

Entrai nella kasbah della città vecchia come vi entra il vento. Mi sfrecciò a fianco una bicicletta pilotata da una signora di cent'anni almeno con in testa un cappellino a forma di barchetta, di quelli fatti di carta. Sopra la mia testa sventolavano come bandiere panni da mare stesi. Avrei potuto trovarmi su di una qualsiasi isola sperduta nel Mediterraneo, se non fosse stato per quelle tavole ricoperte di orecchiette a seccare custodite da massaie che parlavano una lingua a me straniera. Mi accorsi subito di come Bari ti costringa ― con la sua planimetria ordinata e i suoi vecchi caruggi inafferrabili ― a intascare la cartina, perfettamente inutile in entrambi i casi, e a lasciarti vivere dalla città. Passeggiando con pensieri leggeri come capelli al maestrale e respirando un po' di quel blu dipinto di blu che era stato inventato proprio lì, capii come viaggiare da sola sia un atto di fiducia verso l'umanità, come lasciarsi cadere all'indietro ad occhi chiusi, ed in quel momento mi sentii in Viaggio.

Di punto in bianco la quarta parete, che fino ad allora non avevo nemmeno notato, cadde e mi ritrovai a tu per tu con la lunare facciata della basilica di San Nicola. Dopo pochi minuti ero sprofondata nelle viscere di quella chiesa e mi trovavo al cospetto di un polipo eternato in un mosaico magnifico, intenta a chiedermi come mai tal Timoteo scelse, tra tutti gli animali, proprio quella viscosa massa informe di tessuti molli, senza ossa, né colore o consistenza stabili. Che sia stato forse quel suo essere tutto sistema nervoso e la sua pelle col dono della vista a farlo associare a Dio? Oppure che fosse stato quel suo aver rinunciato alla stabilità della conchiglia per poter viaggiare in libertà ad affermarlo ad eroe timotiano? Mentre mi incamminavo pensierosa verso l'ostello, ero fermamente indisposta ad ascoltare quella vocina che dal dentro mi suggeriva l'idea atroce che quel Timoteo non potesse sapere che quell'esserino era quanto di più vicino ad una specie aliena intelligente si possa incontrare al mondo, ma che conoscesse invece benissimo quanto delizioso fosse il suo carpaccio. Tali pensieri si dissolsero non appena incontrai un silenzioso geco, che ― sbeffeggiante della forza di gravità ― se ne stava appiccicato sopra al mio letto. Guardandolo incuriosita mi trovai a pensare che per la mia gente quegli animali erano stati tanto esotici da divenire protagonisti di una bizzarra leggenda che li immaginava ignifughi. Proprio così. Sarebbe interessante capire come mai giunsero a tale conclusione, ma ad oggi non è dato sapere. Però quel che si sa è che per questo motivo se ne trovano parecchi incisi all'interno del palazzo che il giovane rampollo della signoria dei Gonzaga si fece costruire per le sue scappatelle con l'amante. Quest'uomo fedifrago li fece corredare dalla scritta “Ciò che manca a questa creatura tormenta me” come allusione alla passione clandestina che lo infiammava. Immaginai di riconoscere in quello sguardo fermo e un tantino giudicante l'autorevolezza della mia coscienza e, per associazione, lo battezzai col nome di Zeno.

Quel singolare incontro comunque non mi impedì, di lì a qualche ora, di mandare all'aria tutti i piani da me ben congegnati non appena feci conoscenza dei veri taralli pugliesi, a cui riconobbi subito la meritata autorevolezza, annaffiati ― come da manuale ― con qualche Peroni di troppo. Sotto la brezza marina rallentai il passo, seppur non ammettendolo. Semplicemente presi a camminare per i giorni successivi per la città come i suoi abitanti, come se stessi andando da qualche parte, come se ci fosse qualcuno da qualche parte ad aspettarmi. Invece io vagavo a casaccio, senza scopo o appuntamento. Forse cercando bifore e pavoni, o forse per accertarmi di scovare ricordi all'altezza della mia immaginazione. Mi ci volle qualche giorno prima di decidermi ad abbandonare Bari e raggiungere l'amico che mi stava aspettando nella patria di Domenico Modugno.

A Polignano mi accolse un paesaggio così straordinario da sembrare irreale. Certamente fuori dall'ordinario era il colore di quell'acqua nascosta timidamente nelle sue grotte, straordinario il poeta che nasconde i suoi versi in luoghi da riscoprire, ancor più straordinario doveva essere stato l'aver trascorso un'infanzia intera tra trulli, ulivi e un mare che ― se provocato dal maestrale ― rigurgita nelle case lasciate inavvertitamente aperte orate, polipi e spigole. Quanto eravamo cresciuti diversamente io e quell'amico, pensai. A Mantova l'acqua se ne sta sospesa per aria, si intavola maiale ad ogni portata e nell'aria si respira il profumo della brina. Mentre qui l'acqua è compatta e sta coi piedi per terra, si mangiano panini imbottiti di pesce e si hanno i polmoni pungolati dal profumo acre di salsedine e fritto. Lui è cresciuto coi problemi di siccità, io con l'incubo delle zanzare. Qui le palme, da me i salici piangenti; a noi le zucche, a loro i fichi d'India; qui patate, riso e cozze, su uno sgranato risotto guarnito con l'immancabile costina di maiale; qui le massaie farciscono le cozze, noi riempiamo tortelli con zucca e mostarda; da noi i portici, da queste parti largo Albicocca. Chissà se anche lui da piccolo si lanciava giù dalle falesie di spiaggia Lama Monachile come facevano davanti a noi branchi di bambini incoscienti, i quali mi traghettarono subito il pensiero verso i lemming prima, le capre poi. Infatti in quel periodo qualcuno mi doveva aver raccontato di come le capre si inerpicherebbero su sentieri molto ripidi e pericolosi solo perché i loro occhi, non essendo frontali, non percepirebbero la profondità e quindi nemmeno il pericolo che stanno correndo. Quei bambini invece sì, ma semplicemente se ne infischiavano: ero esterrefatta. E chissà anche se avrei mai avuto il coraggio che aveva avuto lui di abbandonare orizzonti di quello spessore. Fu su questa traccia di pensieri che mi sopraggiunse il ricordo di un amico di Gioia del Colle che mi raccontava di come anche Sylvester Stallone era originario del suo paese. Al mio stupore iniziale lui rispose: sai perché non sapevi che viene del mio paese? Perché lui se n'è andato.

Il resto del viaggio scivolò via dolcemente, tra pennichelle sotto la protezione di Zeni locali in celle di quell'alveare di calce che è Ostuni e con la bocca spalancata di fronte al rosso deserto con incastonato lo smeraldo del laghetto della cava di bauxite di Otranto. Mi emozionai leggendo la graphic novel che il monaco Pantaleone era riuscito a tramandare per quasi mille anni; mi innamorai della Masseria Cippano, carapace di vite susseguite che qui hanno trovato casa. Rimasi senza parole davanti alla cattedrale di cartapesta leccese e familiarizzai con gli occhi sbirluccicanti delle tarantole. Infine, mentre percorrevo gli stessi percorsi battuti da chi nella notte dei tempi aveva dipinto quella Cappella Sistina della preistoria che è la Grotta dei Cervi, trovai un fossile di dente di squalo. Ero ammaliata da quel regalo con cui la Puglia aveva deciso di onorarmi e fu così che appresi come nella pietra leccese vengano ancora ritrovate le prove dell'esistenza di esseri viventi che prima ignoravamo. Quella pietra rappresentava quindi la bottiglia nella quale erano stati infilati messaggi della Natura in persona secoli addietro: era quanto di più prezioso riuscissi ad immaginare. E pensare che i poveri operai che la estraevano dalle cave, quando vi trovavano dentro degli enormi denti di squalo che non riuscivano a riconoscere, pensavano si trattasse di fossili di fulmine e li chiamavano pietre di fuoco. Quanta poesia in un semplice sasso.

L'ultima tappa di quel viaggio dai tempi ormai irrimediabilmente dilatati fu Avetrana. Un paesino apparentemente ai confini del mondo e dal fascino guatemalteco, dove mi ritrovai irriconoscibilmente rilassata, col pilota automatico inserito. L'ultima sera, mentre stavamo preparandoci a lasciare la masseria che aveva fatto con noi quello che solitamente le nonne fanno ai nipotini, vidi appiccicato al soffitto Zeno. Gli sorrisi e non resistetti a farlo notare alla ragazza intenta a batterci il conto. Di certo non potevo immaginare che questa, con ferocia inaudita e riflessi predatori, avrebbe impugnato la scopa di saggina e in un lampo si sarebbe accanita su di lui, battendo il povero animale come fosse un tappeto. Che quello fosse il segnale che il viaggio era volto al termine anche per me?


Pubblicato per Almanacco Press in AL-MANACK

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